Un canto “in uscita”: “Cantate propter conversionem gentium”!(Cantate per la conversione delle genti)

Perché si deve cantare?

Tra i molti motivi che ci possono essere, la liturgia della V domenica di Pasqua ne evidenzia uno: tutti i fedeli sono invitati “ad cantandum propter conversionem gentium” (a cantare per la conversione delle genti). Per questo motivo, allora, l’Introito si apre proprio con l’imperativo: “Cantate“!

Cantate Domino canticum novum, alleluia :
quia mirabilia fecit Dominus, alleluia :
ante conspectum gentium revelavit iustitiam suam.

Einsiedeln, Stiftsbibliothek/ Codex 121(1151) – Graduale – Notkeri Sequentiae / p. 231

Cantate al Signore un cantico nuovo, alleluia:
perché il Signore ha fatto meraviglie, alleluia:
ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, alleluia (Sal 97, 1-2).

Il Salmo 97 torna più volte nel corso dell’Anno liturgico e, tradizionalmente, è un canto legato al Natale. Le sue parole, ad esempio, risuonano sia dopo l’Introito Puer natus (è nato un bambino) che dopo l’Antifona di Comunione Viderunt omnes fines terrae (Videro tutti i confini della terra. Sal 97, 3). In quei contesti, l’invito a cantare sembra scaturire proprio dall’annuncio della nascita del Salvatore.

Ma il cantare accompagna tutta la storia della salvezza: passata, presente e futura. Se l’Incarnazione, con il suo imperativo, esorta a cantare, il Mistero della Redenzione celebrato nella Pasqua di Cristo, facendo memoria dell’esperienza del passaggio di liberazione di Israele attraverso il mar Rosso, intona quel Cantico di Mosè: Cantemus Domino (Cantiamo al Signore. Es 15, 1) quasi come una risposta all’invito Cantate!

Celebrata la Pasqua e accompagnati i Neofiti nei loro primi passi di vita come membri della Chiesa, alla quarta domenica dopo la Pasqua torna, nuovamente, l’invito a cantare. Si tratta di un contesto diverso rispetto al Natale. L’invito al canto gioioso non è rivolto ai fedeli che contemplano la nascita del Salvatore ma si apre oltre i confini stessi della Chiesa. È un invito al giubilo per tutti e, infatti, “quarta dominica invitamur ad iubilum, sed specialiter gentes” (nella quarta domenica [dopo la Pasqua] si invita a gioire e, in modo particolare, coloro che ancora non credono).

Il Canto pasquale si fa strumento di evangelizzazione universale. Sfruttando tutta la vis musicae (forza della musica) sono raggiunti i cuori delle genti che, toccati nell’intimo dell’anima, possono fare esperienza di conversione. Convertere, in latino, significa girarsi, il cambiare direzione quasi come chi, sentendo un canto nuovo, non può fare a meno di voltarsi per vedere da dove provenga.

La Chiesa ha questo compito: dare voce, con il suo canto, al Buon Pastore risorto che continua a chiamare tutte le sue pecore: quelle nell’ovile e quelle fuori di esso.

Ma cosa genera il canto?

Sempre nei versetti del Salmo 97 cantati nell’Introito di questa domenica leggiamo:

Cantate […] quia mirabilia fecit Dominus

Cantate […] perché il Signore ha fatto cose mirabili (Sal 97, 1)

In Aristotele leggiamo: “Gli uomini hanno iniziato a filosofare a causa della meraviglia“.(Metafisica, libro I). “τὸ θαυμάζειν” (“il meravigliarsi”) fa sgorgare il nobile amore per il sapere. Nel Salterio, invece, sembra che l’uomo inizi il suo canto dalle Mirabilia Domini (le cose meravigliose compiute dal Signore). Dio accompagna l’umanità con segni che si manifestano nella storia dell’uomo come cose mirabili e il canto vuole essere la risposta all’amore di Dio.

Bernard de Fontaine (Bernardo di Chiaravalle) nel XII secolo scriveva:

“Tria fecit Dominus mirabilia in incarnatione sua. Primum, quod mater esset Virgo. Secundum, quod Deus fieret homo. Tertium, quod praedicta potest credere carnalis homo”.

(Tre cose mirabili ha fatto il Signore nella sua incarnazione. La prima che una Vergine fosse madre, la seconda che Dio si facesse uomo e la terza che l’uomo carnale potesse credere le cose annunziate”)

Tra le mirabilia ci siamo anche noi e, nonostante sia un tema molto “natalizio”, proprio la terza si deve comprendere alla luce della Grazia battesimale. Quod praedicta potest credere carnalis homo (che l’uomo carnale potesse credere le cose annunziate) viene riassunta nell’espressione: “Quod anima [fieret] fidelis” (che all’anima fosse dato il dono della Fede). Avere fede è credere nel Vangelo, in quelle praedicta (cose annunciate) rivelate dal Figlio di Dio che, nella Liturgia di questa domenica, corrispondono a:

Ante conspectum gentium revelavit iustitiam suam

Ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti (Sal 97, 2)

Non sembra, in questo modo, essere il “cantare” il tema che si vuole sottolineare ma quello del “credere”, dell'”aver fede”. Alla luce di ciò, risulta chiaro il perché degli altri elementi che incontriamo nella giornata liturgica.

Nell’Ufficio notturno la Chiesa iniziava, proprio in quella domenica, la lettura delle sette Lettere Cattoliche iniziando dalla Prima di Pietro. Questo scritto ha lo scopo di sostenere la fede dei destinatari in mezzo alle prove che li assalgono. Un evidente motivo per cui cantare sembra riportato nei versetti:

In quo exsultatis, modicum nunc si oportet contristati in variis tentationibus, ut probatio vestrae fidei multo pretiosior auro, quod perit, per ignem quidem probato, inveniatur in laudem et gloriam et honorem in revelatione Iesu Christi”.

(“Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po’ afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell’oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo“. 1Pt 1, 6-7).

La lettura beneficiava del canto dei Responsori che, non casualmente, riprendono questi temi come, ad esempio:

Hymnum cantate nobis alleluia quomodo cantabimus canticum domini in terra aliena alleluia alleluia

“Cantateci i canti di Sion! Come cantare i canti del Signore in terra straniera? (Sal 136 3-4)

O, ancora, Cantate Deo alleluia psalmum dicite ei alleluia (Cantate a Dio, a Lui intonate un Salmo. Sal 68, 5); Bonum est confiteri domino alleluia et psallere alleluia (È bello dar lode al Signore e cantare. Sal 92, 2); Deus canticum novum cantabo tibi alleluia in psalterio decem chordarum psallam tibi alleluia alleluia (Mio Dio, ti canterò un canto nuovo, suonerò per te sull’arpa a dieci corde. Sal 144, 9).

Tra i commenti dei Padri della Chiesa meditati in quella notte, ve ne era uno che appare molto interessante per la comprensione della giornata liturgica. Si tratta di un commento di San’Agostino al Vangelo di Giovanni:

Non enim sonum litterarum ac syllabarum, sed quod sonus ipse significat, et quod eo sono recte ac veraciter intellegitur, hoc accipiendus est dicere cum dicit, in nomine meo“.

[Infatti l’espressione: “nel mio nome” (Gv 16, 23),] Non è da considerarsi secondo il suono materiale delle parole, ma nel senso vero e reale che il nome di Cristo contiene e annuncia.

A questa lettura seguiva il il Responsum: Cantate Domino canticum novum (Cantate al Signore un canto nuovo). Nella novità della Pasqua, allora, incontriamo il senso vero e reale del suono del canto liturgico che si dona proprio come voce di Cristo che noi, suoi fedeli, possiamo intonare in nomine suo (nel suo nome).

Alla celebrazione Eucaristica si arrivava dopo tutto questo percorso notturno di meditazione e orazione che faceva memoria della predicazione di “Petrus apostolus Iesu Christi electis advenis dispersionis Ponti, Galatiae, Cappadociae, Asiae et Bithyniae” (Pietro, apostolo di Gesù Cristo, ai fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadòcia, nell’Asia e nella Bitinia. 1Pt 1, 1).

All’Introito Cantate Domino seguiva la Colletta:

Deus, qui fidelium mentes unius efficis voluntatis: da populis tuis id amare quod præcipis, id desiderare quod promittis; ut inter mundanas varietates ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gaudia.

(O Dio, che rendi di un solo volere gli animi dei fedeli: concedi ai tuoi popoli di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti; affinché, in mezzo al fluttuare delle umane vicende, i nostri cuori siano fissi laddove sono le vere gioie).

Come commentava Guglielmo di Auxerre: “Et quia per fidem uniti sunt duo populi, scilicet gentilis et iudaicus, ideo in oratione habetur: Deus, qui fidelium mentes unius efficis” (e poiché grazie alla Fede sono uniti due popoli, cioè i pagani e i giudei, nella Colletta preghiamo: O Dio, che rendi di un solo volere gli animi dei fedeli).

La Fede è un dono e, circa “il dono”, l’Epistola proclamata diceva:

Omne datum optimum, et omne donum perfectum desursum est, descundens a Patre luminum, apud quem non est transmutatio […]-Propter quod abiicientes omnem immunditiam, et abundantiam malitiæ, in mansuetudine suscipite insitum verbum, quod potest salvare animas vestras.

(Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce, nel quale non c’è variazione né ombra di cambiamento. Perciò, deposta ogni impurità e ogni resto di malizia, accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime. Giac 1, 17.21)

Il dono della Fede è dono che salva proprio perché porta all’unità vincendo uno dei peccati più antichi: la divisione.

Coerentemente a questo ragionamento:

Sequitur in Evangelio: “cum venerit Paraclitus arguet mundus de peccato”. Fides enim omne peccatum excludit. Unde arguere de hoc peccato est arguere de omni peccato.

(E segue la proclamazione del Vangelo: “Quando verrà il Paraclito convincerà il mondo dell’errore del peccato” (Gv 16, 8). La Fede, infatti, allontana ogni peccato. Convincere dell’errore di questo peccato significa convincere dell’errore di ogni peccato).

Queste parole risuonavano nitidamente nel suono dell’Antifona di Comunione (oggi ancora cantata alla Feria III della VI settimana di Pasqua) :

Dum venerit Paraclitus Spiritus veritatis, ille arguet mundum de peccato, et de iustitia, et de iudicio.

Quando sarà venuto il Paraclito, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Gv 16, 8

Il canto che converte è quel suono che, mosso dallo Spirito, ha il coraggio di dire al mondo una Parola: “De peccato, quod habent, de iusticia, quam non habent; […] De iudicio, quod non timent“. (Sul peccato in cui si trova, sulla giustizia che non possiede e sul giudizio di cui non ha timore).

Tutto ciò, in un certo modo, sembra riassunto nell’Offertorio che associa ad una melodia fortemente melismatica un testo altrettando denso di contenuti:

Iubilate Deo universa terra :
psalmum dicite nomini eius :
venite, et audite, et narrabo vobis,
omnes qui timetis Deum
quanta fecit Dominus animae meae.

Acclamate a Dio da tutta la terra,
cantate alla gloria del suo nome,
date a lui splendida lode.

Venite e vedete le opere di Dio,
mirabile nel suo agire sugli uomini (Sal 65 1.5)

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