Popolo di Sion: il tempo del canto è tornato!

La liturgia romana conosce le stationes: delle soste, momenti di preghiera che vedevano -e vedono ancora- il papa e i fedeli recarsi in una basilica significativa: la chiesa stazionale, spesso memoria e luogo custode delle reliquie di un martire. Sono famose quelle quaresimali, ma non sono le uniche e l’Avvento, come ogni pellegrinaggio, ha le sue “soste”. Alla seconda domenica dell’Anno liturgico, negli antichi manoscritti, leggiamo:

et fit statio in ecclesia, quae dicitur Jerusalem a domino Papa

(E il Papa sosta nella Chiesa che è chiamata Gerusalemme)

Anche la città di Roma ha la sua Gerusalemme. E dove si trova? Nel Rione Esquilino. Lì sorge la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme che è considerata, per la liturgia romana, come Gerusalemme stessa. Lì, del resto, erano previste le stationes (soste) per la quarta domenica di Quaresima e del Venerdì Santo. Nei sacramentari altomedievali possiamo leggere, ad esempio,: Orationes quae dicendae sub VI feria maiore in Hierusalem (preghiere da recitarsi -si trattava della solenne Preghiera Universale- il Venerdì Santo a Gerusalemme).

Tutte le celebrazioni della seconda domenica di Avvento sembrano svolgersi nella Città Santa e per gli abitanti di questo santo luogo. Il recarsi nella basilica di Santa Croce ne era la logica conseguenza:

Primum responsorium incipit: “Jerusalem”, et introitus missae: “populus Syon”, et fit statio in ecclesia, que dicitur ierusalem a domino Papa.

(Il primo responsorio inizia con “Gerusalemme” e l’introito della Messa è “Popolo di Sion” e il Papa sosta in quella Chiesa che è detta Gerusalemme).

L’antica preghiera che ritmava la notte nei monasteri e nelle cattedrali vedeva, oltre alla recita dei Salmi, l’alternarsi di lectiones et cantica (letture e responsori prolissi). Come già abbiamo avuto modo di dire, il profeta Isaia accompagnava questi notturni costituendone la lettura che, per la seconda domenica di Avvento, prevedeva l’undicesimo Capitolo. Nei canti della notte, allora, risuonava Gerusalemme divenendo la chiave interpretativa, attraverso la meditazione in cantu (attraverso il canto), di quel testo nel contesto liturgico.

La prima lectio diceva: Et egredietur virga de radice Jesse et flos de radice eius ascendet. (Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Is 11, 1). Al testo rispondeva il primo responsorio nel quale erano state sapientemente inserite delle parole del profeta Michea.

Jerusalem cito veniet salus tua quare moerore consumeris numquid consiliarius non est tibi quia innovabit te dolor salvabo te et liberabo te noli timere.

Gerusalemme presto viene la tua salvezza: “perché ti consuma il dolore? Per caso non c’è più il tuo consigliere?(Mi 9, 4) Perché ti rinnovi nel dolore? Non temere: ti salverò e ti libererò!

La liturgia si dona come rimedio: canto di consolazione per Gerusalemme. Anzi, gli autori medievali ci parlano di un canto di “patientia et consolatio” (perseveranza e consolazione. Rm 15, 4). Un binomio meraviglioso (che si legge nell’Epistola di questo giorno) che scaturisce dalla Parola di Dio come promessa di speranza. Ancora oggi nella Messa risuonano i testi di Isaia e della lettera ai Romani. La “pazienza” è la virtù della perseveranza che assieme alla consolazione sono frutti donati a chi ascolta quella Parola che è speranza certa: “un germoglio spunterà dal tronco di Jesse” (Isaia 15, 4).

Il germoglio che spunterà per Gerusalemme è il Messia liberatore: il Cristo. In questo responsorio sembra, però, esserci anche un’altra citazione: un’anticipazione di un tema che risuona nel giorno di Natale.

Gerusalemme piange ed ha paura ma il Signore, attraverso la voce del Profeta, gli rivolge una domanda retorica poiché ha già la sua risposta. “Forse non hai il tuo consigliere?” (Mi 4, 9). Nel gioco di rimandi della teologia del canto gregoriano, Consiliarius (consigliere) è una parola chiave. Costituisce il nome del Figlio di Dio nel mistero dell’Incarnazione. La messa del giorno di Natale si apre con l’introito Puer natus (Per noi è nato) e nel suo meraviglioso testo cantiamo: “et vocabitur nomen eius, magni consilii angelus” (Il suo nome sarà: angelo del gran cosiglio. Is 9, 6).

Il testo latino, nella Vulgata, così recita: ” et vocabitur nomen eius Admirabilis consiliarius Deus fortis Pater futuri saeculi Princeps pacis“(e sarà chiamato: consigliere ammirabile, Dio forte e Principe della pace dei secoli futuri. Is 9, 6).

La seconda lettura proseguiva con la profezia del tempo di pace inaugurato da questo germoglio del tronco di Jesse: “La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento;
con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio” (Is 11, 4). Seguiva il responsorio ispirato alla profezia di Zaccaria che parla del combattimento escatologico e dello splendore di Gerusalemme:

Ecce dominus veniet et omnes sancti ejus cum eo et erit in die illa lux magna et exibunt de Jerusalem sicut aqua munda et regnabit dominus in aeternum super omnes gentes

Verrà allora il Signore e con lui tutti i suoi santi e in quel giorno ci sarà una grande luce (Zc 14, 5-6). E uscirà da Gerusalemme come acqua pura e regnerà il Signore in eterno sopra tutte le nazioni (Zc 14, 8-9).

Tralasciando gli altri responsori prolissi, dove sempre risuona la città di Gerusalemme, anche alle Lodi si esplicita questo tema. “In laudibus prima antiphona est de secundo aduentu: ecce in nubibus celi” (Alle Lodi la prima antifona parla del secondo Avvento: Ecco nelle nubi ). Si tratta di un’antifona che cita il Vangelo di Matteo nel contesto dei riferimenti al profeta Daniele e all’annuncio della grande tribolazione per Gerusalemme.

Ecce in nubibus caeli Dominus veniet cum potestate magna alleluia

Ecco il Figlio dell’uomo viene sopra le nubi del cielo con grande potenza (Mt 24, 30).

Nella seconda antifona viene rielaborato un testo di Isaia (Is 26, 1):

Urbs fortitudinis nostrae Sion salvator ponetur in ea murus et antemurale, aperite portas quia nobiscum Deus alleluia

(Città forte è Sion: il Salvatore ha posto in essa un muro baluardo, aprite le porte perchè Dio è con noi).

Ancora una volta è sorprendente notare il gioco di richiami biblici e liturgici. Il “nobiscum Deus” (Dio con noi), sembrerebbe già l’anticipazione di quanto sarà cantato negli ultimi giorni dell’Avvento riprendendo proprio il Vangelo di Matteo e Isaia: et vocabunt nomen eius Emmanuhel quod est interpretatum Nobiscum Deus (e sarà chiamato Emmanuele che significa Dio con noi. Mt 1, 23).

Così, ad esempio, nel communio :

Ecce virgo concipiet
et pariet filium et vocabitur nomen eius Emmanuel.

(Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele,
che significa Dio con noi. Mt 1, 23).

La nostra attenzione, inoltre, può essere posta in un altro elemento lessicale presente in questa antifona: il tema della Urbs Syon (città di Sion). Nel contesto del giorno liturgico sembra costituire un anticipazione all’antifona di Introito della Messa. Possiamo vedere questo rimando interno alle celebrazione proprio confrontando l’inizio dell’antifona seconda delle lodi con l’introito (versione del Graduale Novum):

Passiamo, allora, alla celebrazione eucaristica. Il percorso liturgico e teologico delle sue antifone è interessante ma, per non dilungarci troppo, vorrei, per ora, limitarmi all’introito.

Populus Sion, ecce Dominus veniet ad salvandas gentes et auditam faciet Dominus gloriam vocis suae in laetitia cordis vestri.

Qui regis Israël, intendequi deducis velut ovem Joseph.

Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori. Ascolta, tu che reggi Israele, tu che guidi Giuseppe come un gregge.

Quest’antifona d’introito ha un testo che non si trova identico nella Scrittura ma cuce assieme più versetti di Isaia rilanciando, nella liturgia eucaristica, il percorso di preghiera della notte. Si apre chiamando per nome proprio il suo interlocutore: “Popolo di Sion” e l’orecchio che masticava scrittura dei chierici di un tempo lo completava mentalmente: “tu che abiti a Gerusalemme, tu non dovrai più piangere” (Isaia 30, 19). Seguiva la Parola di promessa che era speranza: “ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti” (Isaia 30, 27). Il testo proseguiva quasi affermando la vocazione di questi cantori nella Chiesa che davano voce al Cristo veniente: “il Signore farà udire la gloria della sua voce” (Isaia 30, 30) che è dono per tutta l’umanità: “inondando di letizia i vostri cuori”. All’antifona seguiva il versetto: “Tu, pastore d’Israele, ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge” (Salmo 80, 2). Chi commentava questa celebrazione nel medioevo sembrava quasi aver la consapevolezza della teologia dell’“oggi liturgico”. Quel “tu che guidi” si doveva leggere come “de hoc mundo deducis”: il Re e Pastore eterno che ci guida attraverso la storia di questo mondo: la nostra, nella quale oggi viviamo e celebriamo. E allora è un canto-profezia del secondo Avvento, per il tempo della Chiesa. Se l’essere “pecora”, nel sentire odierno, può essere sinonimo di debolezza, nel canto cristiano è invito ad uno “stile”. “Sicut oves id est simplices” (come pecore, cioè semplici) è una vocazione ad essere semplici, come un gregge che ha fiducia del suo pastore. Questa guida è sì “voce maestosa” (Isaia 30, 30) ma ci raduna e conduce con una sapienza per cui, allo stesso tempo, è anche “la voce della tortora che si fa sentire nella nostra campagna” (Cantico 2, 12). “Ipse enim est turtur“! Egli stesso è la tortora).

L’Avvento, allora, è annuncio che “l’inverno è passato, è cessata la pioggia, i fiori sono apparsi nei campi: il tempo del canto è tornato” (Cantico 2, 11-12).


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