Il Salmo 67 è tradizionalmente legato alla solennità dell’Ascensione. Esso risuona nella Liturgia delle Ore e nelle Antifone di questo giorno. Uno dei Responsori del terzo notturno così cantava:
Ascendens in altum alleluia captivam duxit captivitatem dedit dona hominibus alleluia alleluia
Bibliotheek der Rijksuniversiteit, Antiphonarium, (frag), f001v-002r. IX secolo
Ascendendo in alto, alleluia, ha fatto prigioniera la prigionia, e ha dato doni agli uomini alleluia alleluia (Sal 67,19).
È facile cogliere il valore cristologico di questo testo e, infatti, Agostino dice: “Christo ergo sine dubitatione dictum est: -Ascendisti in altum-“ (Senza dubbio qui si sta parlando di Cristo quando è detto: “Ascese in alto“. Sal 67,19).
La Liturgia, però, cambia quel testo e sembra riprendere proprio le parole di Paolo nella Lettera agli Efesini:
Propter quod dicit: “Ascendens in altum captivam duxit captivitatem,
dedit dona hominibus ”. Illud autem “ ascendit ” quid est, nisi quia et descendit in inferiores partes terrae? Qui descendit, ipse est et qui ascendit super omnes caelos, ut impleret omnia.
(Per questo sta scritto: “Ascendendo in cielo ha fatta prigioniera la prigionia, ha distribuito doni agli uomini“. Ma che significa la parola «ascese», se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose. (Ef 4, 7-10)
Ascendens (ascendendo) è un participio presente che mostra un’azione che si sta proprio svolgendo davanti a coloro che celebrano l’Ascensione del Signore. È la forza della Liturgia che, facendo memoria delle tappe della storia della Salvezza, canta e contempla un hodie (un oggi) che va oltre il tempo celebrando nel tempo.
Hodie secreta caeli caro Christi petiit hodie factum est magnum angelorum gaudium quia filius excelsi jam immortalis in regnum patris sui gloriosus advenit alleluia alleluia.
Oggi la carne di Cristo raggiunge i segreti del cielo. Oggi c’è grande gioia tra gli angeli,
perché il figlio dell’Altissimo, già immortale, giunge glorioso nel regno di suo Padre.
Per questo, allora, l’Introito della Messa non può che dare voce agli Angeli che ora dicono a noi, nuovi uomini di Galilela:
Viri Galilaei,
quid admiramini aspicientes in caelum? Alleluia.
Quemadmodum vidistis eum ascendentem in caelum. Alleluia. alleluia, alleluia.
Uomini di Galilea, perché ve ne state stupiti a mirare il cielo? alleluia: nello stesso modo che lo avete visto ascendere al cielo, così ritornerà, alleluia. (At 1,11)
Nell’hodie (oggi) liturgico l’Ascendens (colui che ascende) incontra gli aspicientes (coloro che guardano).
Come spesso accade nel sorprendente gioco delle allusioni e collegamenti fra i testi liturgici, il testo dell’Introito dell’Ascensione sembra farsi eco di quel Responsorio che apre l’Antifonario:
Aspiciens a longe
ecce video Dei potentiam venientem,
et nebulam totam terram tegentem.
Ite obviam ei, et dicite:
nuntia nobis, si tu es ipse
Qui regnaturus es in populo Israel.
(Guardando da lontano,
ecco che vedo la veniente potenza di Dio,
e una nuvola che copre tutta la terra.
Andategli incontro e ditegli:
“dicci se sei tu
che regnerà sul popolo d’Israele”).
I fedeli, che nella preghiera hanno sempre guardato lontano con gli occhi fissi verso le realtà celesti, ora contemplano il Mistero del Cristo che ascende in cielo con la sua carne.
Anche la nuvola aveva un forte valore simbolico.
“Nubes enim significat gratiam, quia sine nube, id est sine gratia, nullus potest ascendere“
(La nube, infatti, significa la grazia poiché senza la nube, cioè senza la grazia, nessuno può ascendere).
Nell’iconografia medievale possiamo proprio vedere come Cristo non ascenda senza la mano del Padre che lo afferra per portarlo in Cielo.
Questa mano del Padre che rapisce in Cielo è offerta, in Cristo, a tutta l’umanità. E questo spiega la necessità di ribadire nel canto come proprio: secreta caeli caro Christi petiit (la carne di Cristo ha raggiunto i segreti del Cielo).
Anche l’Inno dei Vespri Salutis humanae Sator (Autore della salvezza degli uomini) concordava con questo e cantava proprio al divino Sator (Seminatore) una supplica colma di Speranza:
Tu dux ad astra, et semita,
Sis meta nostris cordibus,
Sis lacrymarum gaudium,
Sis dulce vitæ præmium.
(Tu guida al Cielo e via,
sii meta ai nostri cuori,
sii godimento dopo le lacrime
sii dolce premio di vita).
Il Versetto dell’Introito è preso dal Salmo 46:
Omnes gentes plaudite manibus: iubilate Deo in voce exsultationis.
Applaudite, o genti tutte: acclamate Dio con canti e giubilo (Sal 46, 2)
Questo versetto nel contesto dell’Ascensione assume un valore molto particolare e vuole esprimere l’ “inefabile gaudium de Ascensione” (l’ineffabile gioia dell’Ascensione). Anche chi ha poca fede è chiamato a gioire facendo memoria di questo fatto.
Perchè? “Si enim Christus ascendit, et nos ascendemus” (Se è asceso Cristo, anche noi ascenderemo). Si tratta della promessa della risurrezione futura anche della nostra carne che in Cristo contempla la primizia di ciò che sarà.
La gioia dell’Ascensione è cantata ancora nell’Antifona di Comunione, sempre da quel Salmo 67:
Psallite Domino, qui ascendit super caelos caelorum ad Orientem. Alleluia
(Salmodiate al Signore che ascende al di sopra di tutti i cieli a Oriente, alleluia. Sal 67, 33-34)
Del primo modo gregoriano quia soli Deo cantandum est (perché solo a Dio si deve cantare).
La processione
Come ci ricordano i commentari medievali, “Fiunt enim tres processiones sollempnes in ecclesia: in die purificationis quia Anna et Symeon fecerunt processionem […], in Ramis palmarum propter pueros, […] tercia sollempnis processio fit in die Ascensionis Domini“.
(Nella Chiesa si fanno 3 processioni solenni: nel giorno della Purificazione perché Anna e Simeone fecero una processione, nella domenica delle Palme per quella dei fanciulli e una terza processione solenne di fa nel giorno dell’Ascensione del Signore).
In questo giorno, proprio prima della Messa, i fedeli volevano imitare quelle circa 120 persone che partirono da Sion, attraversarono la valle di Giosafat, passarono il torrente Cedron e si portarono al monte degli Ulivi. La processione aveva anche un valore spirituale: “Processio ista significat ascensum de virtute in virtutem” (questa processione significa il progresso di virtù in virtù).
La processione, come avveniva nella Domenica delle Palme, era accompagnata da Responsori e si chiudeva con “o Rex glorie”, propter illud: “ne derelinquas nos orphanos” (“O Re della gloria” perché nel suo testo leggiamo: “non vi lascio orfani“).
Il testo di questa Antifona aveva il valore di preghiera e chiedeva il dono dello Spirito:
O rex gloriae Domine virtutum qui triumphator hodie super omnes caelos ascendisti ne derelinquas nos orphanos sed mitte promissum patris in nos Spiritum veritatis alleluia
O Re della Gloria, Signore degli eserciti, che oggi sei asceso trionfante sopra tutti i cieli, non lasciarci orfani ma manda in noi il promesso del Padre, lo Spirito di verità.
Poiché alla processione che seguiva il Signore segue l’apparizione degli Angeli, in alcune Chiese “cantatur laus Angelorum” (si canta anche la lode degli Angeli):
Te sanctum Dominum in excelsis
laudant omnes angeli,
uno ore dicentes:
te decet hymnus, Deus.
Ti lodano tutti gli Angeli santo Signore, dicendo ad una sola voce: tu meriti la lode, o Dio.
Catturati verso la Pentecoste
L’Introito Viri Galilaei appartiene al settimo modo del Canto gregoriano. Il numero 7 ha un forte valore simbolico legato allo Spirito Santo e ai suoi doni. Proprio per questo l’Ascensione è una solenne preparazione alla Pentecoste.
Le Rogazioni che precedono l’Ascensione erano viste come un tempo di tristezza in vista del vuoto che avrebbe dovuto lasciare la partenza del Signore. Anche i paramenti violacei ed il carattere penitenziale rafforzavano questa liturgia quasi di commiato. La celebrazione dell’Ascensione, però, corregge questi sentimenti umani orientandoli nella Speranza cristiana. Colui che ascende “non ci lascia orfani”. Anzi, fa di più: ci cattura!
Il Salmo 67 veniva abbondantemente commentato in questa prospettiva. Agostino si chiedeva: Sed quid est: Captivasti captivitatem? (Ma che cosa significano le parole: Hai fatto prigioniera la prigionia? Sal 67,19). La Liturgia non teme di cantare proprio questo versetto che dice: Ascendisti in altum, captivam duxisti captivitatem; accepisti in donum homines (Sei asceso in alto, hai fatto prigioniera la prigionia, e ricevuto doni dagli uomini).
Abbiamo già sottolineato la lettura cristologica che vede qui un legame con l’Ascensione del Signore. Immediato è anche il tema del “dono” legato ai doni dello Spirito Santo e alla imminente Pentecoste.
Potrebbe essere più difficile la comprensione di quella “prigionia fatta prigioniera”. Nella tardo antichità e nel medioevo piacevano i giochi di parole e questa allitterazione non poteva passare inosservata. I prigionieri siamo noi: homines qui captivi tenebantur appellans captivitatem (gli stessi uomini che erano tenuti prigionieri sono chiamati “prigionia”). Dopo la Risurrezione c’è una “nuova prigionia”, allegoria della Chiesa, che è libertà dalla schiavitù del peccato e che ha il suo fondamento proprio nell’annuncio del Vangelo. I Battezzati diventano servitori della Parola incarnata che dice: “Iugum enim meum suave, et onus meum leve est” (Il mio giogo è dolce e il mio peso leggero. Mt 11,25-30).
Sempre Agostino si chiedeva in sento retorico: Cur enim non sit captivitas felix? (Perchè non ci può essere una prigionia felice?). I cristiani sono chiamati ad essere pescatori di uomini, a “catturarli” proprio con le reti di libertà del Vangelo. Unde Petro dictum est: Ex hoc iam homines eris capiens (Infatti a Pietro fu detto: Ormai tu prenderai gli uomini. Lc 5,10).
Il Salmo 67, sempre in questo versetto 19 dice: accepisti in donum homines (hai ricevuto gli uomini in dono). San Paolo, invece, dice: dedit dona hominibus (hai dato doni agli uomini). (Ef 4,7). La prospettiva del testo della Lettera agli Efesini sottolinea il dono dello Spirito Santo che non lascia orfana la Chiesa. Il Salmo 67, però, completa questa dinamica di mistica donazione tra Cristo e la Chiesa. Noi stessi, infatti, siamo chiamati a rendere la nostra vita come un dono per il Signore.
Come mettere in pratica, nella felice prigionia prigionia degli amici di Cristo, questa logica del dono?
Cum igitur idem ipse dicat: Quando uni ex minimis meis fecistis, mihi fecistis; quid dubitamus eum accipere in membris suis, quae dona membra eius accipiunt?
(E, quando Lui stesso ci dice: Ciò che avete fatto a uno di questi miei piccoli, lo avete fatto a me (Mt 25,40), come possiamo dubitare che non sia Lui stesso a ricevere, per mano delle sue membra, quei doni che ricevono le sue membra?)
La Chiesa non sarà mai orfana del suo Signore con il dono dello Spirito che è Amore e presenza dei fratelli da amare.